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Paolo Diena_Intervento alla commemorazione

COMMEMORAZIONE DI PAOLO DIENA
9 ottobre 2011
Orazione di Mauro Sonzini

Innanzitutto consentitemi di ringraziare gli organizzatori della manifestazione per l’onore che mi è stato affidato e di cui spero d’esser all’altezza, soprattutto agli occhi del fratello Giorgio e degli altri familiari e compagni partigiani.

Ricordare Paolo è per me emozione che rimanda ad altra emozione. La prima volta che ho “incontrato” Paolo è stato nel 2005 quando il presidente del Consiglio Provinciale di Torino m’affidò l’incarico di redigere il dossier ufficiale di candidatura per chiedere al presidente della Repubblica l’onorificenza al merito civile nella lotta di Resistenza per la Provincia di Torino. Fra gli operai del marzo 1943, i martiri del Martinetto, i caduti di Cumiana, i tanti Di Nanni, Gardoncini e Vian, io fortissimamente volli inserire la vicenda umana di Paolo Diena, in gran parte attraverso le parole del suo compagno e superiore Marco Bermond. Perché, trattandosi di merito civile, nel quadro di una lotta finalizzata a restituir civiltà all’umanità, l’opera e lo spirito profusi da Paolo in quei dodici mesi di dedizione partigiana, mi erano sembrati esemplari. E, dato che poi ci venne concessa la medaglia d’oro, mi sembra giusto oggi esprimere il mio e il nostro personale grazie a Paolo.

Eppure anche in quell’elaborazione le gesta di Paolo, come ognuna delle altre gesta partigiane che vi ho inserito, per quanto rare, mai mi son sembrate uniche. Già allora avevo posto la figura di Paolo in parallelo con altre esperienze sanitarie della nostra Resistenza, cioè l’ospedale partigiano di Margone in val di Lanzo guidato dal prof. Attilio Bersano Begey o il repartino partigiano dell’ospedale di Giaveno in val Sangone protetto dalle attenzioni della superiora suor Delfina Petitti, e ancora con l’attività di diversi altri medici della Resistenza, tra gli altri la dottoressa Silvia Pons, medico valdese e compagna dell’omonimo Giorgio Diena, il prof. Guido Usseglio Mattiet, comandante della divisione GL Campana, e il prof. Simone Teich, comandante della 2a divisione Garibaldi. Ora però, grazie alla mia compagna Roberta Migliavacca a cui voglio qui esprimere riconoscenza perché dietro un piccolo uomo c’è sempre una grande donna, posso aggiungere che non fu solo carattere locale ma tratto comune a gran parte della Resistenza come emerge dai lavori su altre eminenti figure come la dottoressa Anna Marengo Beck, attiva nella zona di Vercelli, al centro di un audioracconto realizzato dalla locale ANPI a cui Patrizia Zambrano ha dato voce, e come Rinaldo Laudi, altro medico ebreo torinese ucciso dai nazifascisti che ne fecero sparire le spoglie proprio come quelle del nostro Emanuele Artom, divenuto poi medaglia d'argento per la Resistenza nelle colline piacentine, recente oggetto del ricordo della Comunità Ebraica torinese e di una relazione del prof. Angelo Del Boca, partigiano nella stessa divisione GL. Chi conosce il mio animo, sa che è mia peculiarità aver sempre lo sguardo rivolto in avanti, verso risultati da conseguire, verso obiettivi da raggiungere. Mi azzardo perciò a buttar qui un’idea che spero non m’attiri troppi strali per la presunzione e l’intraprendenza. Per ricordar degnamente l’anno prossimo il nostro Paolo Diena, coinvolgendo Comunità Montana, Provincia, Regione e Università (sia Medicina che Storia) e magari con l’aiuto di qualche sensibile fondazione come ad esempio la Pinna Pintor, perché non proviamo a metter in campo il progetto di una giornata d’analisi e riflessione storica e etica sull’attività sanitaria partigiana e sull’eredità lasciata a noi posteri? Credo ne emergerebbero inattesi elementi prodighi di ulteriori conoscenze, un vero e proprio testamento etico-sociale da trasmettere alle generazioni che verranno.

Non paia irriverente tale proposta in questa commemorazione: è l’opera stessa di Paolo a indurmela, lui - la cui adesione a Giustizia e Libertà nasce più da pratica quotidiana che da scelta ideologica - che giunse a sacrificare il suo impeto da prima linea per consacrarsi totalmente ai suoi compagni più sfortunati, a fargli, in quella condizione disastrata e precaria, non solo da medico, ma da parente, da sostegno morale, da approvvigionatore di medicine e viveri, magari pure da cuoco, e anche da tutore nei confronti delle possibili incursioni nazifasciste. Il mesetto trascorso durante il rastrellamento da Paolo, improvvisato medico da studente universitario al quarto anno, e dai suoi pazienti sparsi fra le rocce dell’Alpe dei Poveri e del vallone di Rodoretto sono un monumento di etica e dedizione per chiunque voglia far il medico ma anche per chi intenda votarsi a incarichi pubblici e, per estensione, per tutti coloro che vivono la democrazia, la cittadinanza. Non mi par perciò vano rileggere le parole scritte da Angela Trabucco: “I tedeschi battevano la montagna alla ricerca dei “banditen”. Nel silenzio della valle s’udivano spari isolati, passi cadenzati delle pattuglie, a volte persino voci che gridavano ordini in tedesco: la vita continuava come un incubo. I feriti bruciavano di febbre; erano ferite profonde e dolorosissime, complicazioni di polmonite, aggravate dal sopraggiungere delle piogge. Erano uomini ai confini della vita e come unico riparo avevano qualche coperta e un solo telo tenda in pessimo stato. Pioggia, freddo, fame e il continuo pericolo d’esser scoperti e massacrati. Paolo passava da uno all’altro medicando le ferite e dando il sollievo della sua presenza e del suo coraggio. Durante la notte poteva staccarsi dalle rocce e giungere alla più vicina sorgente a far provvista d’acqua, poi scendeva alle prime grange a cercar qualcosa da sfamar i feriti: spesso non trovava nulla. Sterrava con le mani patate da un campo, riempiva il sacco da montagna e tornava col cibo per tutti. Le medicazioni erano difficili, i mezzi insufficienti e sempre più scarsi”. E mi pare opportuno accostare tale brano ad una missiva del padre, applicata da Paolo ben più che alla lettera: “Se una notte insonne e di fatica può servire per salvar la vita a un solo semplice soldato, è questo il minimo sacrificio a fronte di quanto essi meritano. Cerca di attutire sempre le loro sofferenze fisiche e dimostra amore per loro, che ne sono ben degni, e somma pazienza. Sorreggi con buone parole il loro morale e, buono con tutti, sii in modo particolare buono con essi. Può darsi che nel compiere il tuo santo dovere tu debba trovarti in pericolo ma il tuo pensiero sia prima per chi devi curare”.

Paolo non è frutto del caso. Il già citato padre Giuseppe, massone come buona parte della borghesia d’inizio novecento, dopo aver studiato a Parigi e a Berlino diviene uno dei fondatori della gastroenterologia in Italia. Ma è una sorta di medico popolare inserito a pieno titolo nella tradizione della borghesia illuminata e filantropica di fine ottocento: a nessuno si nega, paga persino le medicine ai suoi degenti in difficoltà. Già imprigionato dal Tribunale Speciale nel 1942 per “associazione segreta filoebraica a catena di propaganda antinazionale”, papà Giuseppe - che rifiuta di porsi in salvo per restar d’appoggio ai figli partigiani in montagna e forse anche a chi potrebbe aver bisogno di lui - viene arrestato il 29 agosto 1944 assieme al padre domenicano Giuseppe Girotti facendogli con l’inganno credere di dover curare uno dei figli ferito. Finisce così deportato prima a Bolzano, poi a Flossembürg dove, in luoghi dove tutto è ridotto ad abiezione, continua a far il medico e dar esempi di dedizione e dignità, fino al punto d’autoridursi la razione e imboccare, come Paolo fa altrove, anche coloro che non hanno più forza per mangiare. Ma a trionfare è la sua morale: “esser uomini maturi per ogni evenienza della vita” e, come ha messo in luce Alberto Cavaglion, conciliar l’inconciliabile “dimostrandosi ciechi di fronte alla cattiveria” e dimostrando che nella sua essenzialità nella vita “si può vivere senza tante cose”. Compiaciuto e consapevole, di Paolo papà Giuseppe così chiosa: “Sei una persona che affronta la vita con tanto spirito di sacrificio e col più alto senso del dovere”.

La mamma poi, Elettra Bruno, cattolica praticante e impegnata nel sociale, guida Paolo e il fratello Giorgio: “Siate d’esempio agli altri, forti di volontà, puri di cuore e di coscienza: non scordate la carità, che non è tutta di pane, ma quella ch’è amore verso gli altri, … e sarete sempre dalla parte della ragione anche di fronte agli avversari”. Orrendamente mutilata nel giro di pochi mesi da due immani tragedie come l’arresto e la deportazione del marito e la morte del figlio, mamma Elettra riesce a farsi ponte, a dispetto delle infauste difficoltà, della loro reciproca armonia tenendoli in relazione con qualche ingegnoso stratagemma e poi, dopo la loro dipartita, si rende agente della loro sublimazione: accanto all’assistenza agli ex detenuti desiderosi di reintegrarsi nella società, nel dopoguerra essa nutrirà infatti l’amicizia con Carlo Bona, proprietario della villa in cui il marito è stato arrestato e arrestato a sua volta con lui, e con il cieco, anziano e bisognoso Remo Raviol alla cui salvezza il figlio Paolo si è sino all’ultimo votato.

Non m’inoltro poi nell’analisi del fratello maggiore Giorgio, anch’egli partigiano, che serro affettuosamente in un caldo abbraccio e prego tutti voi di abbracciare anche per me con un altrettanto caldo applauso.

Per dovere e riconoscenza vanno però ricordate, oltre al dottor Marco Bermond, amico e superiore di Paolo, e ai due infermieri Mario Buzzi e Bruno Scussat, anche altre collaborazioni che contribuirono in modo determinante alla nascita e allo sviluppo dell’assistenza sanitaria resistenziale in questa zona: penso ai dottori Cerrina di Pragelato e Sacco, farmacista di Sestrières, come alle signore Sacco, Paltrinieri, Bonetti e alla maestra Agudio. Ma è bene anche ricordare come nella crescita del movimento di Liberazione si rivelò basilare l’intreccio con collaborazioni offerte da molti locali medici condotti, come qui a Pinasca il siciliano Giuseppe Marturana, partigiano benemerito. E voglio allora ricordare, a dimostrazione che il senso d’umanità può persino esser più forte dello spirito d’appartenenza, anche un medico austriaco, ufficiale sanitario della Wehrmach, il dottor Adolf Krainer, che a Oulx nell’inverno 44-45, dopo l’assottigliamento delle bande partigiane, visitò e curò, senza far troppe domande e correndo anche rischi in prima persona, gran parte della popolazione civile e anche qualche partigiano, guadagnandosi stima e riconoscenza tanto che, nel dopoguerra, fece ritorno ad Oulx a esercitare pubblicamente la professione medica.

Allora mi chiedo se, oltre all’anelito alla libertà e alla giustizia, tali persone furono accomunate da qualche altro tratto sotto l’aspetto etico-professionale. Non è riflessione solo mia: lo scorso 18 settembre il prof. Giorgio Cosmacini ha presentato in un convegno una relazione dal titolo “Medico nazista e medico ebreo: un’antinomia storica ed etica”. Non ho potuto prenderne visione ma credo di poter distinguere da un lato i boia come Mengele con i suoi criminali esperimenti per render perfetta la razza ariana e, in ogni caso, la ricerca subordinata alla propria degenerata esperienza personale, frutto dell’egotismo più sfrenato, carattere proprio del nazifascismo, e dall’altro, senza enfasi alcuna, l’umanità e la dedizione di Paolo Diena e di tutte queste “persone”, le belle e pure anime sulla cui esperienza s’erigerà la nostra Costituzione. Il loro spirito muove da base egualitaria: a chiunque, che sia semplice partigiano o comandante, povero in canna o di famiglia agiata, analfabeta o intellettualmente colto, ebreo, ateo, valdese o cattolico, deve esser garantito il diritto alla salute, che vuol dire non solo recuperar compagni feriti per le prossime battaglie, ma anche e soprattutto il senso civile di sostenere il morale e restituir dignità a chi è costretto ad abbandonar la lotta e, con pesanti e irreversibili menomazioni, affrontar da capo la vita. Su questo s’innestano la partigiana “guerra alla guerra” intesa come estrema inciviltà del mondo e la lotta collettiva per far civiltà dando a ognuno la giusta collocazione e chiamando ognuno a dar in prima persona il meglio di sé, rinunciando magari, come Paolo, alla prima fila per rendersi altrove più utile a tutti. Pratica che, a ben vedere, è anticamera della democrazia dove ognuno deve esser messo nelle migliori condizioni per prender parte attiva e responsabile alla vita sociale. Pratica agli esatti antipodi del nazifascismo fondato piramidalmente sull’autoaffermazione personale e sullo snaturamento controllato degli altri in masse anonime e ininfluenti, che a parole tutti rifiutiamo ma il cui perverso meccanismo ancora iteriamo in molte nostre espressioni sociali. Senza ricordare che talora, come amaramente insegna la tetra lezione dei campi di concentramento ben conosciuta anche dalla famiglia Diena, per ebrei, zingari, omossessuali, disabili, testimoni di Geova e oppositori politici essa giunse al criminale eccesso della loro progressiva spersonalizzazione e eliminazione.

Ma la lezione più profonda che mi par emergere dallo spirito di Paolo Diena e della sua famiglia sta nella loro dedizione militante per l’umanità cioè nel garantir a se stesso e agli altri il diritto a un’esistenza libera e dignitosa. Il loro impegno e la loro determinazione mi paiono anche oggi così rari e così indispensabili sia in campo sanitario che, più in generale, sociale e politico. Cosa farebbe oggi Paolo Diena? Difficile dire. Il “giovane dottore dai capelli rossi” potrebbe esser come il padre un medico popolare intensamente impegnato a migliorar la vita quotidiana ai suoi pazienti. Oppure, forse più probabilmente, o almeno a me così piace pensare, sarebbe un Gino Strada, un Mohamed Aden Sheikh o uno degli altri "costruttori di pace" impegnati sul fronte del mondo intero a portare civiltà laddove non c’è e pare pure che si faccia di tutto per non mettercela. “Al dolore, alla sofferenza si fa l’abitudine - gli scrive il padre - Ma anche se ci si abitua ad assistere a sangue freddo che pare quasi cinismo, ad un qualsiasi atto operatorio, però in tali casi la nostra opera è utile o tende ad esserlo”. E allora, a dispetto degli interessi, dei profitti, dei personalismi, delle menzogne, dei carrierismi e delle politiche squallide o arroganti, Paolo continuerebbe a credere e a operare per l’uomo e per la sua dignità. In questo Paolo mi sembra a tutti gli effetti uno dei nostri Padri Costituenti, padre di quella nostra Costituzione offesa, tradita e ripudiata proprio da coloro che dovrebbero e spesso persino affermano di voler attuare, che affida la sovranità al popolo, che ci impone di rimuovere gli ostacoli economici e sociali che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, che ripudia la guerra come strumento d’offesa alla libertà di altri popoli - e lo dico nel decimo anniversario dell’intervento in Afghanistan -, che ci garantisce, a tutti, senza distinzioni di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali, la salute, l’istruzione, la conoscenza, il lavoro e la cultura, che ci obbliga tutti, TUTTI, a contribuir alle spese pubbliche in ragione davvero della nostra capacità contributiva, e che estende a tutti gli stranieri nel nostro Paese l’esercizio delle libertà democratiche che essa garantisce a noi. Costituzione che sancisce libertà all’iniziativa privata non omettendo di proteggere con vincoli singoli e collettività dalle conseguenze del liberismo, nell’ottica di uno sviluppo armonico con l’utilità sociale e mai in contrasto con la sicurezza, la libertà, la dignità umana – e dico questo nella giornata dedicata alle vittime sul lavoro. Costituzione che ribadisce il concetto di bene pubblico, che indica la necessità della salvaguardia del territorio proteggendo il patrimonio storico, artistico e culturale che per la nostra Nazione è insieme ricchezza e tratto identitario. Perché, come scrive papà Giuseppe, “l’occhio ha sempre bisogno del bello”; e in un paese devastato dalle macerie - morali e materiali - della dittatura e della guerra, con ragione e lungimiranza così devono aver pensato Padri e Madri Costituenti nella volontà di rafforzare il progetto di felicità pubblica per il quale moltissimi avevano scelto di metter a repentaglio la vita, talora, come Paolo, fino al sacrificio estremo. Per questo oggi s’impone a noi, ad ognuno di noi, prima ancora di difenderla, di voler davvero questa Costituzione, attuandola e praticandola in ogni attimo e in ogni ambito della nostra quotidiana esistenza.
Concludo con una riflessione di Paolo: “Infiniti sono i casi della vita, inesplorabile il destino: noi cerchiamo di forgiarcelo come ci piace o come ci piacerebbe che fosse. Anch’io ho i miei sogni come ogni altro mortale. Ma quale sarà il mio destino: una pietra bianca o una pietra grigia?” Noi ben lo sappiamo: una meravigliosa pietra bianca che, come la nostra Costituzione, giorno dopo giorno dobbiamo sentirci tutti quanti impegnati a render sempre più candida e sfavillante.

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